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L’Infinito spiegato a mia figlia

Vincenzo Guarracino

Un giovane con un difficile riconoscimento di sé, tra la “sovrana passione” dell’amore descritta nel cosiddetto Diario del primo amore (1817) e il “doloroso disegno” della fuga da Recanati (agosto 1819), con al suo punto di incandescenza la scoperta della Poesia come lingua di un modo nuovo di dar voce alla “mutazione totale” che si avverte dentro: è questo il Giacomo Leopardi che, nell’anno 1819,  compone l’idillio L’infinito e si affida attraverso una poesia alle domande essenziali che ogni giovane si pone di fronte alla vita.

È un “uomo solo”, come lo ha definito Massimo Bontempelli in una sua celebre pagina, questo Leopardi: solo con le sue domande, in un difficile passaggio della sua vita e dominato da un senso di autentico soffocamento, al punto da fargli confessare, tra confidenze epistolari e pagine zibaldoniane, di voler assolutamente sfuggire alla sua condizione ad ogni costo, anteponendo al “nulla” e alla “noia” perfino l’idea della morte, del suicidio.

“Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare” (Zib. 85).

Nel deserto di questo “nulla” che si spalanca dinanzi ai suoi occhi, c’è il preannuncio della drammatica scoperta, vissuta dapprima sulla propria pelle e poi oggettivamente come legge universale, della “infelicità certa del mondo” (Zib. 144, 1°luglio 1820). Fare i conti con essa equivale a fare i conti con il “tempo della povertà”: equivale ad avvertire lo scadimento delle illusioni e delle speranze su cui ogni uomo ha fondato la propria adolescenza.

In questo modo, di fronte al “vero” (il “nudo, / arido vero che dei vati è tomba”, deplorato dal Monti), l’uomo scopre la propria infelicità e al poeta non resta che ripiegare su se stesso, sulla coltivazione e contemplazione del proprio dolore, “in un perenne ragionar sepolto”, come si descrive nell’idillio Il primo amore.

Ecco, ci sono i segnali e gli spunti per un riconoscimento.

Ribellione contro il “vuoto”: l’amore e la fuga (ma anche l’amicizia come suprema, energetica risorsa).

Ascolto di sé, della propria coscienza: la Poesia, meditazione che cerca una lingua, una “voce”, una musica. In un’allerta in cui ciò che conta è la domanda, l’attesa, l’esigenza più profonda di comprensione delle cose: in una parola, il “sentimento”.

Come non rilevare che sono le dinamiche che agiscono da sempre nei “giovani” di ogni tempo e di ogni età, ieri come oggi?  Che ci sono punti essenziali che fanno simili domande e risposte, su cui conviene soffermarsi?

Il testo innanzi tutto:

L’infinito

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Preliminarmente, alcune indicazioni, essenziali al suo inquadramento.

Innanzi tutto, sulla prospettiva che Leopardi suggerisce fin dai primi versi in quel suo disporsi al mondo circostante, di fronte al “suo” paesaggio: dall’alto e a distanza, in una posizione molto esposta e solo apparentemente protetta.

Una prospettiva fatta di bisogno di vicinanza e di immedesimazione (“Sempre caro”) e al tempo stesso condizionata da una dolorosa sensazione di esclusione (“l’ultimo orizzonte”).

La cosa è tanto più significativa e notevole in quanto si ripete, avviene, in una sorta di necessario rito quotidiano e senza tempo (“sempre”), in cui ciò che conta è la consapevolezza in cui si accetta, innanzi tutto, di guardarsi e poi di guardare, con quel “mirare” che tradisce un desiderio, una voglia golosa impossibile.

“Sedendo e mirando”: c’è un gioco di risonanze e di echi che fa pensare a due altri gerundi che troviamo in una contemporanea pagina dello Zibaldone, “considerando e sentendo”, in cui la coscienza di sé da parte dell’io si risolve in penosa introversione, in drammatica constatazione del “vuoto” e del “solido nulla”.

Quanto è lontana questa attitudine e posizione da quella del sapiente lucreziano dell’inizio del libro II del De rerum natura, che, protetto dalla sua dottrina di fronte al naufragio del mondo e degli uomini, avverte la sua distanza come un privilegio!

È questa l’immagine che ci resta impressa della sua poesia alle soglie dell’idillio L’infinito: quella di un io in posizione assisa (“sedendo e mirando”), quasi orante.

Una postura che almeno corregge un poco quella, ben più disperante, dell’idillio Il primo amore, in cui l’io si confessa in un “perenne ragionar sepolto” (“solo il mio cor piaceami e col mio core / in un perenne ragionar sepolto / alla guardia seder del mio dolore”).

Una postura, questa che la critica ha convenientemente evidenziato, a partire dal De Sanctis che per primo ha parlato a tal proposito di meditazione, più precisamente di un tipo di meditazione definita “assisa”, come scelta di una postura da “bramino”, in attesa di una essenziale illuminazione, che intuitivamente lasci immaginare e intravedere, oltre ciò che gli occhi vedono, altri scenari, altri orizzonti che forse la ragione non sa concepire.

Una postura di meditazione che predispone a un vedere diverso: un vedere che è insieme visione e ascolto.

Per questo nuovo vedere Leopardi usa il verbo mirare: come dire che è una contemplazione tesa a fissare oggetti ed emozioni, oltre il limite, oltre la “siepe”, oltre il mistero invalicabile.

È insomma allo spazio della visione che pensiero e cuore si dispongono, tra paura ed emozione, facendo emergere una dimensione nuova dell’io, oltre la prosaicità della frequentazione, quella allusa dall’attacco così duro e antilirico, impoetico, del primo verso, segnato dall’insistenza di suoni e segnali inamabili (“Sempre caro mi fu quest’ermo colle”).

Una situazione che dice come dalla durezza e antiliricità dell’oggi può innescarsi, grazie all’ascolto, un modo diverso di percepire, di “sentire”, le cose: è questo che significa l’ascolto, nell’attimo in cui il cuore sa andare all’unisono con la “voce” degli altri esseri viventi, di ieri o di oggi poco importa, preso com’è da un inesplicabile bisogno di pienezza, che si potrebbe definire perfino “nostalgia”, come necessità di riapprodo a una sorta di condizione edenica, originaria.

E come il vento / odo stormir tra queste piante io quello / infinito silenzio a questa voce…”: è un “suono”, quello del vento e dello sfrascare degli alberi, ciò che dà un senso nuovo delle cose, la percezione della “lingua” senza parole della natura tutta, in cui l’io scopre se stesso come parte minima ma assoluta, unica.

Val pena di segnalare come qui si tratti di un “suono” che è, sì, reale, udito con i sensi, ma più ancora è un suono interiore, che porta ad assorbile ed elaborare, sentire, ciò che i sensi non arrivano a concepire: qualcosa che attiene con il profondo, l’antico. Una sorta di memoria irriducibile ad ogni significato, come dirà poi a proposito del canto di Silvia (“lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno”): senza altra mediazione se non chi l’avverte.

Necessario e insostituibile anche nella sua fragilità e piccolezza, ma capace di dare un senso al tutto, autentica “misura” di tutte le cose come diceva il sofista Protagora.

Come in un quadro di Rothko, o di fronte a un taglio di Fontana: l’io, come rapito, nella sua nuda piccolezza a contatto con l’incomprensibile ma eloquente silenzio liberato dalla necessità di significare-rappresentare niente altro che sé stesso.

Una nova antropologia dunque!

Forse non è improprio ricordare una affermazione di san Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi, là dove l’apostolo esalta la “debolezza” come categoria teologica: ἡ γὰρ δύναμις ἐν ἀσθενείᾳ τελεῖται, “la vera forza si manifesta, consiste nella debolezza” (Corinzi 2, 12, 9).

Un concetto, questo, che è bene ricordarlo, in Leopardi, riemerge con forza nella Ginestra, laddove si riconosce nella umile pianta, emblema di debolezza (non meno della foglia “frale” dell’Imitazione), la capacità di vincere sulla forza del Male, sullo Sterminator Vesevo, inondandone le pendici con la forza continuamente risorgente dei suoi colori e dei suoi profumi.

La forza della debolezza, della fragilità, ecco: è una ricetta di vita? Io credo di sì.

Per un giovane, vuol dire la capacità di guardarsi, nella sua naturalità di essere di un Tutto, a dispetto e oltre le sconfitte: “erta la fronte, armato, / e renitente al fato”, serenamente resistendo ad ogni ostacolo, come Giacomo si proclama in conclusione di Amore e morte.

Colpisce nella parte conclusiva dell’idillio il tema del naufragio, configurato come “dolce”: come dire che la lezione più vera e feconda del rischio consapevolmente accettato che dall’Infinito può trasmettersi all’esperienza della vita dei giovani e capace di esorcizzarne la paura e l’angoscia, la frustrazione del presente, di questo presente, consiste nella capacità di contrastare ogni rischio di dispersione e spreco, lo spettro della precarietà e della vanità del tutto, con un’apertura alle infinite possibilità della vita, a ciò che dà senso e colore all’esistenza: sotto il segno di un legame forte, dall’amicizia all’amore, dando voce a una piena di sentimenti appagante, che si configura sotto il segno di quello che Leopardi de Il pensiero dominante evocava come “dono del ciel” e come “dolcissimo, possente / dominator” della sua mente, ossia l’Amore.

È proprio sull’Amore, inteso come legame forte e vero, assoluto, come risorsa per esorcizzare naufragio e dispersione, per sottrarsi allo spettro della precarietà dell’esistenza e al baratro della vanità, che conviene insistere: sull’amore per tutto ciò che di bello e affascinante offre la vita, per le creature, non meno che per l’Uomo, inteso come creatura su cui investire speranze e risorse emotive e sentimentali, e soprattutto per la Poesia, per l’Arte, per un sistema di valori che vada al di là dell’uso e dell’immediato, cui chiedere il dono di essere corrisposti integralmente, nella stessa misura in cui ciascuno si aspetta di essere corrisposto.